Quello che il porno non dice

L'educazione sessuale relegata al porno

Quello che il porno non dice

Sarà stato il contesto benpensante o la famiglia fortemente cristiana che hanno spinto mia madre, classe ’68 - una data, un’emblema -, a percepire l’estrema necessità di un’educazione sessuale in famiglia a fronte di quella che lei non ha mai ricevuto. A circa 5 anni le pongo il primo “come si fanno i bambini?”. “La cicogna li porta alle mamme e ai papà che desiderano un figlio” disse.

Qualche mese dopo, davanti alla mia insistenza, cambiò versione in favore di una meno family friendly: “con un lungo bacio”. Ma, stremata dalle mie seguenti petulanti e isteriche richieste di udienze basate su un’ignoranza confusa e logorante, mi diede un libro per avere le risposte che cercavo. “Come glielo spiego” si chiamava, con in copertina una Barbie ed un Ken
svestiti, sotto delle lenzuola rossicce. Mi consigliò di sottolineare tutte le parole che non comprendevo affinché me le potesse spiegare dopo, dandomi così successivo
modo di seguirla per tutta la casa esigendo i significati di “spermatozoo”, “mestruazione”, “orgasmo”. Il sogno di tutte le mamme di bambine seienni.

Entro i sette anni seppi cosa fossero la masturbazione, il sesso, la penetrazione, il concepimento, le mestruazioni, l’orgasmo, i profilattici, gli ovuli e gli spermatozoi.
Mi misi l’anima in pace pensando “so cosa devo sapere, bene così. Adesso non se neparla più fin quando non dovrò essere io a fare...queste cose”.
Ma il destino aveva altri piani per me: alle medie, in una classe con livelli ormonali fuori dal normale e tensioni sessuali eccessivamente esplicite, tutte le mie certezze vennero prese e lanciate nella spazzatura. Le mie compagne più popolari mi raccontavano cosa facevano le loro amiche più grandi citando parole che non avevo mai sentito, come “ditalino” e “sega”, ed erano così convinte che fossero delle cose che nessuno al mondo avesse mai praticato prima d’allora che si opposero alla mia convinzione che queste pratiche rientrassero nella “masturbazione”.
Mi convinsero che una cosa era la “sborra” e tutt’altra era lo “sperma” di cui avevo tanto letto nel libro che prima aveva assunto le vesti di Sacre Scritture per poi diventare mera carta straccia. I compagni si sedevano all’ultimo banco e guardavano porno con la gara implicita a chi facesse il commento più volgare - ovviamente indirizzato alle sex workers. C’erano gare a chi ce l’avesse più lungo e chi più grosso, a chi si facesse più seghe a casa (“pugnette” le chiamavano, contribuendo alla mia perdita di certezze), c’erano classifiche sulla più bella della classe e mercificazioni costanti e continue, i corpi femminili e i loro movimenti venivano passati in rassegna al microscopio alla ricerca di una qualsiasi sessualizzazione o opportunità di una molestia verbale sotto forma di “battuta”.


Si parlava del sesso come se lo si conoscesse e lo si praticasse, senza neanche guardare in faccia la realtà: eravamo tredicenni e dodicenni convint* che il resto del mondo non sapesse cosa fosse - a parte quella piccola popolazione che lo praticava o registrava per soldi - e che fossimo noi le uniche persone del mondo a volerlo conoscere.
Perché? Perché i grandi non ne parlavamo mai.

I grandi lo evitavano, cambiavano discorso se nella conversazione si tirava in ballo un argomento affine così come cambiavano canale se c’era una scena hot. Da chi potevamo apprendere le informazioni preziose di un tema così attraente quanto pericoloso se i nostri genitori non lo trattavano e se il libro di scienze si limitava all’aspetto scientifico della riproduzione? Da noi stess*, ovviamente, e dagli strumenti che disponevamo: primo tra tutti, il porno.

I porno che vedevano i miei compagni di classe all’ultimo banco, a suon di “ma che maiala” o risatine isteriche contenute, raffiguravano donne completamente diverse da noi, con culi e seni prosperosi e abbondanti, vite strette, resistenza al dolore spaventosa e voci altissime al punto di risultare false anche nelle più semplici conversazioni. Non solo erano figure quasi mitologiche e assolutamente irreali (soprattutto se confrontate a quell’ammasso di foruncoli, frangette col gel e magliette in cotone di Monella Vagabonda che rappresentavamo noi) legate a un canone di bellezza utopico e doloroso, ma facevano cose che non ci spiegavamo - e se i maschi venivano interrogati sull’argomento, rispondevano con un’alzata di spalle e un semplice “è una puttana”.

Rimanevano incastrate, con le loro tette troppo grosse o culi troppo larghi, nelle lavatrici o sotto i tavoli o sotto i letti, ovviamente in posizione doggy style. Aprivano la porta di casa, nude o
praticamente, a sconosciuti come idraulici o elettricisti. Si ritrovavano casualmente a letto seminude con i propri stepbrother o stepfather o cousins.
Nella maggior parte di questi video, la figura femminile è in una situazione di noia, di dolore, di pericolo addirittura (“mi sono lasciata col mio fidanzato”, “sono incastrata da qualche parte”, “c’è un tubo che perde in cucina”). Potrebbero sembrare solo pretesti narrativi banali per fare iniziare una scena, ma non lo sono: fanno infatti suonare un campanellino di richiesta nel cervello inconscio della maggior parte delle persone socializzate come maschi, non rappresentando altro che il paradigma vecchio come il mondo della donzella in pericolo, della donna da salvare. L’uomo si rivede nella sua controparte maschile all’interno del video attraverso una dinamica che intitolerei “complesso del cavaliere” e riesce a soddisfare la sua urgenza interna di entrare in gioco per sollevare le sorti e l’umore della donna attraverso il sollevamento stesso della sua bandiera. Poetico, no?

Non a caso nei porno il pene assume una centralità colossale legata fortemente all’ideologia machista per cui l’uomo si misura in relazione alle dimensioni del pene.


Il membro maschile, soprattutto se di dimensioni importanti e se eretto, viene osannato e venerato come fosse un dio sceso in terra: tutto avviene per lui o per conto di lui. Niente di nuovo, ovviamente, nella società eterocispatriarcale in cui ci muoviamo: le odi al pene in quanto emblema di virilità e mascolinità sono state portate avanti dall’erezione (in tutti i sensi) del primo dolmen alla costruzione dell’ultimo ponte di Calatrava, passando per il Big Ben, la Torre di Pisa, gli obelischi egiziani e romani, la Tour Eiffel. Ecco, l’ideologia autocelebrativa degli uomini va avanti da tempi immemori ma è mutaforme quanto eclettica. Nel porno contemporaneo, il pene è cura e garanzia del compimento dell’atto, come se senza di esso l’orgasmo o la soddisfazione non potrebbero assolutamente avvenire. Viene celebrato in maniera ossessiva e senza alcuna via di fuga: non esiste un porno che vada avanti senza penetrazione, paradossalmente neanche nei video lesbici.

Infatti in questi ultimi, magicamente spunta sempre fuori un dildo eccessivamente realistico o un uomo in carne ed ossa che rendono “completa” la performance. L’indice di goduria sembra aumentare in relazione alla larghezza non solo del pene ma anche degli elementi che hanno la possibilità di entrare nei canali femminili: diretta conseguenza della penecentricità intrinseca, è il falso mito per cui la donna goda in relazione alla dimensione di ciò che la penetra, che sfocia in fenomeni esagerati se non addirittura lesivi come il fisting.

Mai sentito parlare della clitoride e delle sue 8k terminazioni nervose che permettono l’orgasmo alla donna?

O eravate troppo impegnati a misurarvelo?


È sempre la penecentricità assoluta ad aver portato intere generazioni a credere che lo squirting sia l’unica maniera in cui una donna può orgasmare: null’altro se non
una proiezione dell’orgasmo maschile sull’organo femminile, non predisposto effettivamente al rilascio di liquidi ad alta pressione nell’orgasmo.

Un altro classico ricorrente elemento all’interno del porno è la resistenza iniziale. Ovviamente il porno si guarda per osservare l’atto sessuale, per cui è scontato
attendere il sesso. Gli autori hanno dunque - brillantemente ma violentemente - scovato un’idea geniale per rendere l’ottenimento del sesso più difficile: il “no” da
parte della controparte femminile. Così le stepsister, le milf, l’ex fidanzate, le cugine che si trovano incastrare nelle posizioni più infernali o seminude nel letto in cui si
intrufola la controparte maschile, sono inizialmente restie. “No”, “not now”, “I have a boyfriend” e altre sono le cose che dicono prima di essere ugualmente spogliate, toccate, montate dall’uomo. Una dinamica come quella che vede la parte maschile appropriarsi del corpo femminile nonostante il suo dissenso è atta a nutrire l’orgoglio maschile, nient’altro che l’ego del predatore istintivamente animalesco che ha la forza di sopraffare: è uno stupro, è una questione di potere.

Non per altro ho detto che gli autori hanno attuato questa genialata “brillantemente quanto violentemente”: perché sono stati bravissimi psicologi delle masse a intuire che l’uomo cis etero si trova comodo a sguazzare nello stereotipo del predatore che saccheggia e stupra con una virilità innata quanto pericolosamente fragile, soprattutto in tempi storici che la mettono in dubbio.
Il video porno basato sulla dinamiche di stupro non è altro che un contentino, un “pat pat” sulle spalle del ragazzo medio a cui viene detto “sei uomo e sei predatore, non rispondi alla logica e al raziocinio, figurati al consenso di una femmina”. Così facendo però, non sono state prese in considerazione le pericolosissime ripercussioni di video del genere: gli stupri reali dettati dalla convinzione maschile che il “no” da parte di una donna rappresenti un “convincimi”.
Sempre per la rubrica “gli uomini tosti e duri fanno così”, il porno propina una visione di sesso - in alcuni casi stupro - basato sull’incredibile forza del genere virile, che si traduce inevitabilmente in indisponibilità emotiva: anche se nella scena assistiamo ad un rapporto fidanzata-fidanzato, è palese la latenza di qualsiasi strato emotivo. Non esiste porno in cui una la delicatezza, la sensibilità, l’attenzione per l’altr* vengano espressi anche attraverso una semplice carezza. Ogni azione deve avere come obiettivo quello di godere o di far godere l’altr* attraverso la stimolazione diretta dei membri, con un meccanicismo e una pulizia irreali e figli di una realtà produttiva capitalista non disposta a sporcarsi di cose reali e vere come i
sentimenti. I tempi vengono forzati, compressi, molto spesso eliminando i preliminari e in particolare quelli rivolti al piacere femminile, pur di arrivare alla penetrazione che, come abbiamo detto, deve rappresentare il tassativo culmine del piacere per ambo le parti. Nessuna frase di riguardo per *l* propri* partner in scena, il dirty talking viene ridotto a un “yeah, fuck me hard” e similia. Nella stessa maniera, niente che possa essere lontanamente riconducibile ad una coccola o ad uno spettro lontano di comunicazione volta a dare/ottenere maggior piacere.
Inevitabile apprendere che il sesso ci vuole automi impassibili, anche se innamorat*, che godono solo attraverso il contatto diretto coi nostri genitali, senza scoprire la meraviglia delle zone erogene e della ricerca delle stesse, senza alcun indirizzamento al/alla partner verso ciò che ci piace ma la ugual pretesa dell’orgasmo, senza neanche la voglia di sperimentare da sé le infinite possibilità del nostro intero spettacolare corpo.


Questo perché il porno ci ha insegnato una cosa scontata quanto fondamentale: il sesso è una performance.

Apprendendo la nostra propensione alla sessualità da una vera e propria azione attoriale, siamo mossi a nostra volta verso un sesso recitativo, basato su una serie di fattori: il godimento altrui, indicato da fattori fisiologici ma nel caso della donna più da grida e gemiti forzati e esagerati in quanto ci viene insegnato che è così che si gode (e se vieni senza aver svegliato tutto il vicinato, allora non sei davvero venuta); la forma fisica impeccabile, che siamo dispost* ad ottenere utilizzando pose plastiche e accortezze (come trattenere la pancia e assumere solo certe posizioni); la durata, approssimativamente necessariamente superiore ai 10 minuti perché quella è la durata minima dei porno, come se dopo non ci si potesse concedere un altro round o se non esistesse la possibilità di coccolarsi e restare insieme; l’infallibilità dell’erezione o dell’orgasmo, come se entrambe fossero sempre necessarie all’atto sessuale e dettassero la qualità non solo dell’esperienza ma soprattutto del/la partner, arrivando addirittura a dover apprendere tecniche per durare di più.

Il prodotto pornografico rappresenta l’emblema delle stratificazioni di necessità che incontra l’utente finale, designato e stabilito come uomo - in quanto nella società eterocispatriarcale, le donne non devono neanche sapere di possedere una vulva o tantomeno usarla da sole. Si prefigge dunque di dover rispondere ad una necessità puramente maschile, niente che non sia esemplificabile con l’espressione “richiesta di mercato”, ma così facendo si macchia della colpa di formare nuovi utenti al gusto particolare del porno machista e maschilista. Si tratta dunque di un cane che si morde la coda, creando un loop tendenzialmente infinito di autorigenerazione: l’industria del porno attuale è un ingranaggio ben funzionante e oliato della
macchina del patriarcato. L’industria non si evolve verso la sua naturale successione, nonostante la quarta ondata femminista e l’eventuale voglia di acchiappare un nuovo target, perché conscia della sua ipocrisia ma soprattutto impaurita di cosa potrebbe significare fare porno in maniera femminista. Sì, perché la soluzione al porno non-etico, oggettificante, violento esiste, e non è la proibizione quanto piuttosto la ristrutturazione dell’industria in una chiave nuova completamente basata sulla comunicazione, sul consenso, sull’ascolto, sul rispetto (sia nei video che fuori). Piattaforme di porno etico e femminista esistono da tempo - e sono da preferire ai grossi colossi - e si differenziano dal restante porno mainstream grazie a dinamiche slegate dal potere non consensuale e dalla violenza, proponendo un’idea di sesso reale o quanto meno plausibile, non correlato a logiche di performance e intoccabilità emotiva, spesso mostrando corpi e coppie non conformi.

Ma non è solo il porno a dover andare incontro ad una necessaria ristrutturazione: è l’intera società che ha pensato fosse etico e corretto nascondere il discorso sulla tematica sessuale a* bambin*, condannandoli ad un’autodidattica basata su materiale scadente e violento. La necessità di un’educazione sesso-affettiva femminista e basata sul consenso, sin dalle scuole primarie, è impellente e fondamentale per avere la minima chance di progredire in termini comunitari, soprattutto nel momento storico in cui la tecnologia ci offre nuovi modi di esplorare la sessualità, che possono, purtroppo, tramutarsi in orribili esperienze.

Dalia Aly

Dalia Aly

Autore

Ecofemminista intersezionale